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Narrativa condivisa: II capitolo

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Domenica 24 febbraio si sono chiuse le votazioni per il primo capitolo per nostro progetto di scrittura a più mani. Il capitolo 1 che avete scelto è quello di Filomena Roberto

Da oggi fino al 20 marzo sarà possibile – partendo da questo capitolo – scrivere il secondo. Aspettiamo le vostre pagine attraverso il modulo sottostante, dopo aver preso visione del seguente regolamento:

  1.  Il vincitore/la vincitrice del confronto sul capitolo 1 non potrà concorrere per il capitolo 2, ma solo per i seguenti (sarà così di volta in volta, i vincitori staranno fermi per un turno).
  2.  Il capitolo 2 dovrà essere compreso tra un numero minimo di 4000 parole e un numero massimo di 7500 parole.
  3.  Si proporranno al voto solo i capitoli che la redazione avrà selezionato e ritenuto meritevoli, che verranno pubblicati sul blog. Quello che riscuoterà un maggior numero di condivisioni e di apprezzamenti (in commenti) diventerà il seguito della storia e il nuovo punto della trama da cui ripartire per il terzo capitolo.
  4.  I commenti inviati con lo stesso indirizzo e-mail valgono comunque un solo voto.
  5. Sarà effettuato un controllo sugli indirizzi ip e si considereranno validi un massimo di 2 voti espressi dallo stesso indirizzo ip.

Aspettiamo i vostri capitoli 2! In bocca al lupo!

[toggle heading=’I capitolo (click per mostrare)’] Era uscita quella mattina, come faceva da dieci anni. Aveva imboccato la strada che portava alla stazione, percorso i primi metri: sentiva i suoi passi procedere lentamente, quasi i piedi si incollassero all’asfalto. Nebbia e buio pesavano sulla sua pelle e solo il tintinnio del portachiavi che batteva sull’anello al suo anulare destro le ricordava dove stava andando e per quale motivo. Non poteva sopportare che i suoi occhi scivolassero via, liquefacendosi nell’inconsistenza delle parole non dette, che le sue mani abbandonassero ogni cosa fosse stata loro. Bagnata, rimaneva immobile sul binario, mentre sfrecciava il treno su cui non era salita.

Non riusciva a decidere se l’essere rimasta lì fosse esattamente un bene, e si smarrì per lunghi minuti nei suoi ripensamenti: a che ora c’è il prossimo treno? Ma può darsi che sia meglio tornare domani, magari mi vesto pure meglio. Si voltò di scatto, richiamata alla realtà dalle imprecazioni del ragazzino che era giunto trafelato e ansimante accanto a lei e stava maledicendo la sorte per aver perso nuovamente il treno. Il ragazzino con lo zaino aperto e la sigaretta in mano le sorrise e si sentì in dovere di darle spiegazioni: aveva perso così tanti giorni di scuola da non ricordarseli nemmeno, ma proprio quell’assenza non ci voleva, perché l’insufficienza che avrebbe preso per aver saltato il compito in classe gli sarebbe stata fatale. Sofia sorrise anche lei, solo per cortesia, e pensò che anche lei era totalmente impreparata a ciò che la aspettava. Il ragazzino continuò a parlarle, forse perché lei dava l’impressione di una che sapeva cosa fare in caso di difficoltà, almeno questa era l’idea che Sofia aveva di sé, e le chiese se voleva una sigaretta, giusto per passare il tempo nell’attesa del prossimo treno.

Sofia sorrise di nuovo e l’accettò malgrado avesse smesso da anni. Chiacchierarono del più e del meno, come spesso accade tra viaggiatori ‘ritardatari’ in attesa, e Sofia si chiedeva cosa potessero avere in comune lei e il ragazzino da andare così d’accordo. Si chiamava Gianni il ragazzino, e le raccontò della scuola e che aveva già perso un anno per colpa dei trasferimenti dei suoi genitori, ma che questa in realtà era la scusa ufficiale: non ce l’aveva proprio la voglia di studiare lui, però gli era andata di lusso perché i suoi se la bevevano e non gli facevano problemi. Quando il treno arrivò, Gianni corse a prendere posto esultando, ché forse faceva comunque in tempo a entrare a scuola con un po’ di ritardo, ma quando si girò per chiedere a Sofia dove preferisse sedersi, lei non c’era. Sofia si allontanò dalla stazione più veloce che poteva, tentando però di non dare l’impressione di una che stesse fuggendo. Aveva smesso di piovere e si sedette su una panchina con l’aria di chi ha bisogno solo di qualche minuto di riposo dopo una lunga camminata. Tirò fuori l’iPod dalla borsa e cercò le sue canzoni preferite: sprofondò nei pensieri senza ascoltare neanche una nota. Stava cercando di estromettere tutto ciò che le succedeva intorno per riflettere su cosa fare: se non ci vado, mi dirà che come al solito avrò avuto qualcosa di più importante da fare.

“Ma come faccio ad andarci? Oggi non credo proprio di farcela.” Non riusciva a risolversi sul da farsi, si sentì sciocca e debole e alla fine l’unica decisione che riuscì a prendere fu di restare seduta a riflettere con la musica a palla nelle orecchie. Dopo quasi un’ora pensò che forse fare una breve passeggiata l’avrebbe aiutata a lasciare i pensieri per strada. Decise di entrare in una specie di tavola calda per spizzicare qualcosa e tentare così di arrestare i crampi allo stomaco che non le davano pace, anche se sapeva perfettamente che non erano certo dovuti alla fame. Scelse un contorno scondito e triste e si sedette a uno dei tanti tavolini liberi. Si guardò intorno e capì che, in effetti, era un po’ presto per pranzare, per cui c’era poca gente. Molto meglio, non aveva voglia di confusione e voci che si accavallano. Di fronte, a un altro tavolo, era seduta una minuscola ragazza orientale che aveva davanti quattro o cinque pietanze diverse, dal primo al dolce. La cosa colpì moltissimo Sofia. Si mise a osservarla e la ragazza se ne accorse quasi subito: la guardò di rimando con una certa curiosità e Sofia non riusciva a capire perché la stesse squadrando così sconcertata. “Ma no, non devi mangiare così… sai, è molto pericoloso per una donna saltare i pasti o mangiare in modo brutto!” Disse davvero ‘brutto’… Sofia pensò che sì, il suo pasto era malinconico, ma definirlo addirittura brutto era un po’ troppo. Sofia non sapeva cosa rispondere: era sorprendente quanto quella donna graziosa e minuta potesse parlare in modo così dolce e severo allo stesso tempo, in un italiano così scorrevole peraltro, ed era sorprendente che se la prendesse tanto per il suo striminzito pranzo. Questo bizzarro incontro ispirò molta simpatia in Sofia, che si spostò subito al tavolo della ragazza e si presentò.

“Ciao, sono Sofia.”

“Io sono Yunyeon Lee”, disse molto velocemente la ragazza.

“Scusami, non vorrei essere scortese, ma non ho capito.”

“Oh, non preoccuparti. I miei amici mi chiamano semplicemente Yon. Puoi chiamarmi così anche tu se vuoi.”

Si misero a chiacchierare del più e del meno, del perché Yon fosse tornata a studiare in Italia per la terza volta, del perché Sofia sembrasse così affranta, anche se Yon continuava a ribadire le sue ‘regole’ sull’alimentazione a ogni boccone. Parlare con una perfetta sconosciuta stava facendo molto bene a Sofia, e le sembrò una situazione tanto buffa da farla sorridere per la prima volta da un po’ di giorni.

Yon le raccontò poi di essere coreana, ma di vivere in Giappone con i suoi genitori. Smise di sorridere quando confidò a Sofia che in Giappone per i coreani la vita non era facilissima, ma preferiva non pensarci in quel momento. Disse anche che più tardi avrebbe fatto una telefonata ai suoi per sapere come andavano le cose. Sofia confidò a Yon che in quel momento avrebbe preferito essere in qualunque parte del mondo, anche in Giappone, anche più lontano e in un luogo sperduto, pur di evitare ciò che avrebbe dovuto decidersi ad affrontare, in un modo o nell’altro.

Era trascorsa più di un’ora quando il cellulare di Sofia iniziò a vibrare, poi a squillare. Lei lo guardò per un paio di secondi, indecisa se rispondere o no, poi lo spense continuando a parlare con Yon. In modo molto educato Yon le disse che avrebbe potuto rispondere, non si sarebbe mica offesa, ma Sofia rispose che non era importante, si trattava solo di una conoscente con cui non aveva voglia di discutere in quel momento.

Mentiva. Era così chiaro che anche Yon se ne accorse all’istante e la guardò con un affetto da vecchia amica. Lo sguardo tenero di Yon ebbe l’effetto di far sentire Sofia appoggiata e compresa, le fece pensare che forse sarebbe stato meglio prendere il successivo treno, mancava soltanto mezz’ora. Salutò la sua nuova amica con la promessa di sentirsi e vedersi molto presto. Mentre andava via, pensò che quello fosse un genere di promesse che non venivano mai rispettate, purtroppo.

Tornò alla stazione in pochi minuti e si ritrovò ad aspettare di nuovo sotto una fine pioggia. Si spostò per ripararsi, si chiuse meglio la giacca e nel voltarsi casualmente verso l’uscita le tornò l’istinto di scappare a casa e rimandare, di nuovo. Per salire finalmente in treno dovette ricercare il coraggio negli angoli più nascosti del suo essere, in angoli nei quali non credeva il coraggio potesse nascondersi. Quando si sedette al suo posto, Sofia provò un lieve senso di rilassatezza.

Viaggiare in treno, in autobus, in aereo, le piaceva troppo, le dava tempo e modo di riflettere senza fretta e di riuscire a considerare nella giusta misura gli aspetti apparentemente secondari di un problema. La matassa dei suoi ragionamenti solitamente molto intricata e confusa sembrava sciogliersi delicatamente insieme al panorama che fugge via. Non la disturbavano i tipici rumori del viaggio, né le piccole manie o scortesie degli altri viaggiatori, perché per lei, e forse solo per lei al mondo, facevano parte di un sottofondo familiare e rasserenante. Erano dieci anni che quello era il suo sottofondo, la base quasi musicale su cui galleggiava la sua mente.

Fu a circa metà di questo ennesimo viaggio, mentre osservava l’anello al suo anulare destro, che Sofia si illuminò e finalmente prese una ferma, vera e vitale decisione.

 

 

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